L’anarchica follia dell’esperienza contro la logica bieca del profitto.


Se mi permetto ancora di intervenire su questo argomento, cercando di essere rapido come necessità di blog richiede, è perché non sono troppo lontano dal pensare quello che diceva Heidegger citando Hölderlin: “ciò che resta lo fondano i poeti”.
Ritengo che la poesia sia un aspetto centrale e fondamentale nella mia visione antropologica di una comunità che si pretenda civile.
La poesia è un bisogno antropologico primario che deve trovare una concretizzazione attraverso la produzione e fruizione di testi adeguati.
Questa mia certezza inevitabilmente chiede una risposta a tutte quelle forme istituzionali del mio paese, incaricate di produrre e gestire la cultura, inglobando la poesia nel più generale problema culturale in Italia.
Non sono un marxista né un comunista: ma mi pare che oggi, almeno nella realtà italiana, la cultura sia proprio una sovrastruttura del sistema economico: ma restringiamo il campo, per forza di cose.
Limitiamoci all’argomento di cui sopra, ovvero alla poesia, la quale, come si sa, non è un genere economicamente appetibile. Dunque rappresenta un mondo un po’ a parte, dove le ragioni del marketing non trovano spazio.
Che non sia economicamente appetibile non vuol dire che non debba essere importante nella vita di una comunità.
E allora cosa è la poesia oggi in Italia, questa sconosciuta…
La poesia oggi in Italia è come un’ autostrada intasata, dove confluiscono due stradine secondarie più piccole.
La prima stradina è percorsa da migliaia di persone che scrivono versi e li pubblicano anche in case editrici minuscole, più o meno di qualità: tra questi, ci sono un gruppo che si stagliano, per qualità e cultura, al di sopra degli altri, voglio dire che esiste una graduatoria oggettiva nel valore e nella tenuta dei testi.

La seconda strada invece è percorsa da tutti coloro i quali rientrano nell’aspetto dell’ufficialità: case editrici grandi o medie che pubblicano anche qualche poeta, organizzatori di convegni o festival letterari importanti, relazioni culturali con l’estero, riviste.
Queste due strade, parallele, non si incontrano mai (come la geometria a scuola ci insegnava).

Perché? Per il motivo che non si vuole che coloro, i quali percorrono la prima strada, invadano anche la seconda.
Basterebbe costruire un ponte che metta in comunicazione le due strade.

Nel blog del sito di Atelier, una delle riviste di punta nel panorama poetico italiano, il direttore Marco Merlin, che ha appena pubblicato un libro da Einaudi, sottolineava giustamente come un direttore di collana non potesse perdere il suo tempo a leggere centinaia di manoscritti o a rispondere a telefonate.
Ragionevole: purtroppo la falsa idea di democrazia (siamo tutti uguali) e una miriade di altri aspetti che riguardano gli storici della cultura, o gli studiosi di sociologia o dei mutamenti antropologici, ha prodotto il fenomeno del velleitarismo: tutti vorrebbero essere scrittori o registi (insomma tutti vorrebbero poter affermare la loro creatività e lavorare in tale ambito), dimenticando che la creatività si può esprimere anche coltivando un campo. Bisognerebbe entrare nel territorio delle attitudini e delle vocazioni, ma lasciamo stare…

Sempre Merlin dice: “…Anch'io sogno un mondo in cui si pubblichi scegliendo sul campo…con Atelier è quello che facciamo, in effetti. Ma si tratta di un'isola felice (che fa arcipelago, suppongo, con poche altre riviste e realtà editoriali), e ci riusciamo perché ancora siamo dentro a un orizzonte artigianale e di nicchia…”.

Ecco, mi chiedo, perché quello che vale per la rivista Atelier non debba valere per i grandi gruppi editoriali che hanno infinite risorse economiche in più?
Perché non si possa giungere a una ristrutturazione dei compartimenti un po’ stagni che regnano nelle grandi o medie realtà editoriali?
Basterebbe semplicemente assumere personale qualificato in più…
Il problema si è verificato nel momento in cui, nei grandi gruppi editoriali, si è assunta più gente proveniente dai settori del marketing o dell’economia che dai settori della cultura o delle materie umanistiche (e questo è accaduto ancor più in altri ambiti di produzione culturale come l’industria discografica o i mass media). Naturalmente c'erano dei meccanismi di trasformazione in atto: le esigenze del mercato (oggi pare che dire mercato sia come dire Dio...), la massificazione e l'industrializzazione della cultura (ma ciò ha generato più cultura, più teste critiche e pensanti? O non ha forse creato una crescita esponenziale infinita di pseudo cultura spazzatura? Chi ne ha tratto un reale vantaggio?)...
Questo ha prodotto una mutazione sostanziale nel volto delle varie case editrici: è vero che molte collane sono dirette da poeti o da gente culturalmente preparata, ma esistono mille vincoli alle politiche strategiche dei consigli d’amministrazione.
Nella grande o media editoria, non esiste più una mentalità “alla Scheiwiller” (o almeno lontanamente simile...), piccolo ma noto editore di prestigio che pubblicava per il puro gusto di pubblicare e, quando ci perdeva dei soldi, ovviava vendendosi un quadro di casa sua.
Non esiste più uno come Valentino Bompiani: e in ambito discografico, non esiste più uno come Ricordi.
Non si investe nella poesia (assumere una schiera di lettori professionisti ovviamente aumenterebbe i costi) semplicemente perché si pensa che essa non possa portare guadagni consistenti di ritorno.
Questo è il problema: la poesia non fa aumentare le entrate, dunque la si tollera un po’ così, vivacchiando (ma molti consigli d’amministrazione credo che volentieri ne sospenderebbero la pubblicazione…)
Le collane restano solo per un fatto di prestigio.
Ed ecco che accade il fenomeno che è il centro del problema: si decide di pubblicare qualcuno ogni tanto, ma per i motivi più vari che spesso non hanno a che fare solo con il valore dei testi.
Mi spiego e prendo come esempio, sperando che mi si scusi, proprio lo stesso Marco Merlin-Andrea Temporelli.
Ora Temporelli ha una vetrina prestigiosa per far conoscere e diffondere i suoi testi; se non avrà successo, non avrà più scuse ma solo una di queste tre ipotesi: o che è scarso come poeta o che i tempi non sono preparati per la sua poesia o che non è stato ben distribuito o adeguatamente pubblicizzato.
Il critico noto che leggerà Temporelli, potrà dire apertamente “mi piace, è un ottimo poeta” senza aver paura di valorizzare e di fornire permesso di soggiorno a un clandestino, senza sentire il peso e la responsabilità di una sua scoperta (molti critici sono vigliacchi, pavidi…). Anzi, magari si pronuncerà a favore per far piacere all’editore importante che poi forse gli pubblicherà il suo ultimo saggio.

I colleghi poeti potranno prenderlo come un modello importante.
Ora, qual è la questione: ovviamente non è la poesia di Temporelli ma il fatto che lui sarà visto come la punta di diamante della sua generazione: e questo francamente non è vero perché ritengo che almeno Italiano, Santi, Mencarelli, Fossati (che addirittura non ha ancora mai pubblicato il primo libro), Matteo Marchesini e Sinicco siano superiori a lui. Ma l’elenco probabilmente si potrebbe estendere…
Può darsi che sia una mia impressione, una svista soggettiva: ma ammettiamo che ciò sia vero (sappiamo che esistono dei valori oggettivi, altrimenti dovremmo mettere sullo stesso piano i testi di Luzi e quelli di un’anonima casalinga di Voghera…).
Allora accadrà che la vetrina einaudiana consentirà a Temporelli, se ci sa fare, di avere molte più occasioni di affermazione degli altri: e scatteranno quindi gli inviti ai convegni (lì poi è un’altra serie di “conventicole”…), le letture pubbliche, le traduzioni, i viaggi e gli inviti all’estero ecc. ecc.
E tutto questo senza che il poeta però valga davvero più degli altri detti…
Certo nel disinteresse generale nei confronti della poesia a chi volete importi se il nuovo poeta dei nostri tempi sia Temporelli piuttosto che Fossati. L’è uguale…Uno vale l’altro…
Ma per chi investa la propria vita nel cercare di arrivare sempre più in alto nella scrittura, per chi abbia un talento naturale e per la poesia stessa, questa è una palese ingiustizia.

Le case editrici grandi o medie devono entrare in un ordine di pensiero più etico che economico. Le ragioni dell’economia devono essere, non dico subordinate, ma almeno sullo stesso piano delle ragioni dell’etica e della responsabilità, del valore e della qualità…
Con i metodi di lettura veloce, non ci vuole molto a leggere 50 manoscritti di poesia, basta prendere tre o quattro testi campione per rendersi conto della stoffa: accantonare la zavorra e mettere da parte le cose di qualità… Si può fare in un giorno…
Tutti hanno diritto a una prima lettura (che poi può diventare più approfondita…).
Basta con le lettere false e cortesi di “arrivederci e grazie” per tenersi buoni i lettori-scrittori.
Io facevo il lettore per una nota casa di produzione cinematografica, dove si cercava di visionare tutte le sceneggiature che arrivavano (spesso pessime, ma su 40 scarsi ci poteva essere una buona idea, no?…).
Si potrebbe anche inventare la figura del talent scout poetico, come si faceva negli anni 70 nell’ambito dello spettacolo, nei teatri o al mitico Folkstudio romano: Verdone, Troisi, De Gregori, furono scoperti nei teatrini off.
Allo stesso modo, si potrebbero sguinzagliare degli osservatori nei vari festival di letture poetiche più importanti.
Inoltre, dovrebbe finire la vocazione esterofila di molti grandi gruppi che rincorrono il gusto dell’esotico, tipico della mentalità provinciale o da colonia.
Non si può arrivare in casa editrice e dire: “stiamo cercando una poetessa giovane straniera da pubblicare”, quando magari hai sotto gli occhi, ben vivi e vegeti, una trentina di giovani italiani (maschi o femmine, che importa…) degnissimi.
Io vorrei che, per quanto attiene alla poesia, si ritornasse all’avventura anarchica e libera dell’esperienza piuttosto che ai progetti a tavolino con il placet dei consigli d’amministrazione dove spesso entra gente che non ha mai letto un verso…
Ovviamente, questo non è un discorso pessimistico o distruttivo: sono un fottuto, inguaribile ottimista e credo che l’importante sia sempre scrivere cose buone e magari rivolgersi a editori di qualità.
Il mio è solo un discorso che ritengo giusto, per tutti…
Il mio è un discorso battagliero per la poesia…
Quando si smuoverà qualcosa nel mondo della poesia, a partire da un’educazione nelle scuole primarie, passando poi da grandi editrici e giornali, con forze nuove di giovani, accadranno forse meno episodi come quello capitato all’attore Paolo Calissano, incarcerato per questioni di cocaina…
Magari, lo si troverà intento a leggere un libro di poesie brasiliane assieme alla bella ballerina.
La buona poesia è simile alla droga, ma non fa male…E scongiura il vuoto…


Andrea Margiotta

Commenti

  1. Caro Andrea, il taglio del tuo intervento mi piace, nonostante il mio scetticismo al riguardo. Sulla chiusa dell'intervento, quello in cui affermi che "...la buona poesia(...)scongiura il vuoto", direi che alle volte sì, è così, altre volte lo spalanca definitivamente, il vuoto.
    Un saluto
    Fabio Ciofi

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  2. Caro Andrea,
    tutto ha un mercato: basta saperlo stimolare. L'esempio più classico di vendita - quando manca una vera domanda - è crearla, fittiziamente crearla per far credere che il dato prodotto sia ESATTAMENTE quanto tutti cercano, in un dato momento (vedi Ogilvy and Mather, Lorenzo Marini e Associati, Gavino Sanna ETCC...: tutti pubblicitari che fanno del creare un bisogno IL PANE con cui vivono).
    Qindi: se effetivamente mercato per il prodotto non c'è, ecco che si può crearlo.
    Tutti annusano il prodotto perchè il prodotto è pubblicizzato. Il prodotto viene testato, richiesto e in breve ecco che il prodotto - grazie alla concertazione della domanda - diviene un prodotto necessario. Esemplarmente palese. Questa è la ragione per cui abbimo le case piene di prodotti inutili che creadiamo vitali.
    Le maggiori case editrici Italiane fano capo quasi tutte ad un unico gruppo, che guarda caso è deus-ex-machina anche delle testate di maggior vendita e dei quotidiani. Fondamentalmente creare pubblicità per promuovere un tuo stesso prodotto non costa nulla: pubblicizzi roba tua su un giornale tuo. Il massimo difetto visibile è aumentare di una (UNA) pagina la tua testata, il tuo giornale.
    E ora prendiamo la poesia: tu signor X propietario del gruppo Y pubblicizzi la poesia edita dalle tue case editrici sui giornali che ti appartengono. Questo ha costo zero ma moltiplica i lettori - o la fascia d'utenza - interessata alla poesia. Questo - de facto - ha il duplice vantaggio di A) promuovere la testa giornalistica-quotidiano con una sfera d'interesse mirata ad una determinata fascia di utenti. B) promuovere le vendite della tua testa giornalistica-quotidiano (indi guadagno). C) Promuovere le vendite di quei libri che tu stesso pubblici in seno alla casa editrice di possidenza (indi guadagno bis).
    Il problema non è la poesia che non si vende.
    Il problema è che le case editrice sono in mano a caproni beceri ed ignoranti che leggono a malapena le lettere delle fermate del metrò.
    E dispiace sapere che - mentre tutti gli amministratori delegati-unici-nominali-etccc si fregiano d'essere esperti di marketing e ristrutturino le case editrici in base al profitto- vada persa quella possibilità imprenscindibile della vita che è la poesia. E dove trova la gente la poesia se non trova poesia da leggere perchè non è stata abituata a comprarla-scorpirla-apprezzarla? Nelle canzoni. Perchè tutti ricordano i ritornelli stupidi di canzoni melense e non i versi di una buona poesia?
    E dove avrebbero potuto trovarla la buona poesia?
    Termino con un elogio al buon vecchio Scheiwiller, scopritore di talenti, pioniere, coraggioso pazzo sognatore. Ma di eroi ne nasce uno per epoca.

    Fabiano Alborghetti

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  3. scusate gli errori di battitura ma ho la tastiera "alle cozze". Spero che i refusi non tolgano serietà al commento...
    Fabiano Alborghetti

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