Del patetico e di altre cosette: frammenti...







«Intrigante»... (Questo termine di moda mi è simpatico)...

«Ma di che stiamo parlando?», glisso su questa espressione che rimbalza da un dibattito Tv all'altro, con enfasi: (se non lo sapete voi, direi...)
 «Io sto con...», frequente nei social: è una spia linguistica di uno smarrimento e di un  desiderio di appartenere a qualcosa.  Comunque, mi batte sui nervi lo stesso...
Poi c'è: «piuttosto che» usato in modo scorretto.
Esempio d'uso corretto:  «Preferisco leggere Nietzsche piuttosto che Heidegger!». (Ossia: più x... che y)...
Esempio d'uso improprio: «Be', vuoi sapere i miei registi preferiti? Potrei dirti Fellini piuttosto che Antonioni, piuttosto che Bertolucci...». (Cioè, potrei dirti Fellini o Antonioni o Bertolucci).
 
«Lui è patetico»... «Tutto questo è patetico»... L'avversione al «patetico» è interessante; purtroppo arriva anche a coinvolgere taluni editor che forse non avrebbero pubblicato Pascoli (patetico), Pasolini (patetico, in qualche zona, non solo per influenza di uno dei suoi maestri, appunto Pascoli); anche il primo libro di Luzi, La barca, aveva qualche momento patetico. Ed altri autori, cercando, Alda Merini (amatissima però dai lettori) o certi stranieri arabo-persiani. Ma c'è del patetico anche nel Manzoni, no? 
L'avversione al patetico in letteratura (prosa o poesia) è speculare a quella per il melodramma come genere cinematografico... Melodrammatico, nella critica di cinema, è quasi sempre usato negativamente.
Come si è sviluppata - nel tempo - questa avversione al patetico e al melò?
E - se la produzione dei dilettanti poeti o scrittori - è invece pregna di patetico (o di maldestri tentativi di poesia sociale o civile), vuol forse dire che alla gente stia a cuore?
E le canzonette? Quelle belle di una volta, di Battisti o di Celentano, o anche qualcuna di oggi, non sono l'espressione di bisogni umani più profondi? Di emozioni da esprimere in un linguaggio? (Diversi, comunque, vicini: una canzone è una canzone; una poesia è una poesia)...
Similmente, con l'avversione al patetico e al melodrammatico,  in alcuni lettori c'è l'insofferenza verso qualche autore giudicato come un salice piangente: ecco l'accetta che si scaglia perfino contro un notevole poeta quale Roberto Carifi che fa suo un sentimento di orfanità pascoliano (ma c'è orfanità anche in Rimbaud) e un sentimento tragico mitteleuropeo, nutrito da studi filosofici... Però qualche lettore dice: «Non sopporto quel suo piagnucolare (sic!)»... Atteggiamento che esorbita dalle cose poetiche e rimbalza nel quotidiano dire, in tutte le declinazioni del: «piangersi addosso».
Dietro questa avversione, penso ci sia l'incapacità dei più a condividere o, semplicemente, ad ascoltare il dolore dell'altro da sé. Perché non si hanno risposte al dolore, lo si vorrebbe accantonare in un angolo. (Diverso è quando sia spettacolarizzato in immagini tv, quando cali nella cronaca morbosa, quando fa notizia...). Un difetto di carità e pazienza...
Non solo: l'imbarazzo per l'altrui pianto è pure questa roba qui: l'altro da sé viene ormai sempre più percepito quale cosa da usare  (negli Usa, si dice: «Use me!»), merce di scambio.  
Un giovane potrebbe supplicare o impietosire o «intrigare» un datore di lavoro, dicendo: «Mi usi: non se ne pentirà»... Mi usi? Una bella ragazza potrebbe offrirsi come merce di scambio in natura, e, in quel caso, non si sa bene chi sia ad usare chi.
Ma noi siamo forse fatti per diventare oggetti da usare?
L'amore (o l'amicizia) non sono armonia di egoismi; e non dovrebbe esserlo, neppure il lavoro...
Ma cosa vuol dire patetico? Be' viene dal greco πάϑος «sofferenza». Dunque, nel caso di opere artistiche: che suscitano un sentimento di malinconica commozione, di mestizia, di compassione, di pietà... Cosa c'è di male, in questo? Si vuole solo una letteratura che non commuove, (cioè che non mette in movimento), che non compatisce (cioè che non patisce con)?
Certo, il grande T.S. Eliot non amava le pose e il sentimento dei romantici.
Ma non credo che tutta questa avversione derivi solo dalla sua lezione.
Temo che ci sia qualcosa di più profondo e legato a una ontoteologia (nel senso di Heidegger) di tipo finanziario e pseudo-scientifico che vuole signoreggiare sugli enti.
Il πάϑος e la memoria sono una forma di resistenza dell'uomo... Così come le religioni...
Dicevo della memoria: già, tempo addietro, avevo citato Deleuze per non gettare il solito fango sull'elegia, altra vittima di certi «lettori killer professionisti». Avevo citato Deleuze ed è stata l'unica volta in cui il poeta Lello Voce mi abbia scritto, in privato, manifestandomi il suo essere in accordo. Cosa che ho apprezzato, visto che non lo siamo quasi mai...
Io penso che - in ambito artistico - contino solo lo stile e la consapevolezza stilistica di un autore: (Céline, un mio modello che non rientra in senso stretto con il mio discorso di fondo, pure si professava stilista e asceta); e mi auguro che non si preferiscano sempre testi con una fotografia fredda e impersonale ad altri con una fotografia calda e avvolgente (per usare una metafora cinematografica)...
Altrimenti avremo solo: o testi depotenziati, da intrattenimento, per passare il tempo, o testi sociologici, o testi come freddo prodotto da laboratorio, buoni per qualche teorico della letteratura o per qualche filologo...
Mario Luzi operava una distinzione - di derivazione paolina, suppongo - tra parola come lettera e parola come spirito ed espressione del pensiero. Sono d'accordo con lui, pur avendo io lavorato sul significante e sugli aspetti fonosimbolici della parola (retaggio del mio conterraneo Carmelo Bene? O delle mie radici nel postmoderno e nel metodo mitico di Eliot e Pound? O del montaggio cinematografico?). Vorrei tendere - però - a una poesia che facesse scintillare le cose più che le parole... (Qui la disputa filosofica sulla conoscenza e sul linguaggio sarebbe lunga, tra Aristotele, Isidoro di Siviglia, Anselmo d'Aosta, San Tommaso, Duns Scoto, Guglielmo di Ockham e Nietzsche...). 
Mi pare d'aver scritto sempre e solo quando ne sentissi l'urgenza esistenziale.
Non mi sono mai messo a tavolino, dicendo: «Bene, oggi troviamo un tema o un argomento, o un campo semantico insolito e strambo (da far passare come originalità) e poi giochiamo con le combinazioni delle parole»... Non so se questo possa essere avvertito, leggendo quel poco che ho scritto in poesia... Ecco: si possono usare strumenti critici raffinatissimi, teoria della letteratura, perfino la filosofia, in sede critica. Ma quando ci si siede al tavolino dedicato ai romanzi o alle poesie, bisognerebbe staccarsi o proprio sospendere, in epoché fenomenologica, il blocco antifurto della teoria. Perché la poesia non è un trattato di filosofia o un saggio di semiotica e, sia Mengaldo che la ragazza del liceo, vogliono leggere un romanzo o un testo poetico.
A tal proposito, ecco cosa rispondeva Derek Walcott in un'intervista concessa a Franco Romanò: https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/05/21/intervista-a-derek-walcott-di-franco-romano-su-tradizione-le-avanguardie-e-il-modernismo/


«FR
Leggendo i suoi versi non vi è traccia, almeno superficialmente, di un’attenzione per la filosofia o la psicanalisi che per la cultura europea del secolo scorso sono stati due riferimenti quasi obbligati, anche per i poeti, insieme alle nuove scienze del linguaggio. Quale è il vostro atteggiamento nei confronti di queste discipline?

DW
Bene, lei mi scuserà se farò un paragone osceno nel rispondere a questa domanda. Fare poesia vuole dire entrare volontariamente in una prigione. In questa prigione si aggirano un sacco di teorie accademiche, c’è la semiotica e altro, la prima cosa da fare è preoccuparsi di non farsi inculare...»

E ha vinto il Nobel...
 
Ad ogni modo - dopo la mia difesa di certe «vittime» artistiche - mi congedo augurandomi (e augurando) la produzione di testi di VERE PRESENZE (ricordando Steiner) che parlino al cuore dell'uomo, inteso, biblicamente, come centro di Ragione e Sentimento, e che approfondiscano il mistero e il dramma della sua esistenza...    




 

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