La tensione dell'arte il poeta contemporaneo è ancora viator?
Mi preme postare il testo di codesto incontro tenutosi al Meeting di Rimini quasi due anni fa...La questione è molto importante (e sempre attuale e aperta) per me e spero possa esserlo anche per altri...Mi ritrovo nelle parole del mio "fratello" Davide Rondoni...Chiedo scusa per eventuali errori o inesattezze che correggerò via via: purtroppo in questi giorni non ho proprio tempo per un editing che in questo caso servirebbe trattandosi di una trascrizione da sbobinatura effettuata probabilmente da qualche ragazzo giovane...Il testo è stato preso dagli archivi del sito del Meeting di Rimini, cui potete dirigervi cliccando sul titolo...
Cordialmente
Andrea Margiotta
Domenica, 22 agosto 2004, ore 19.00
Relatori:
Paolo Valesio, Docente di Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Yale.
Moderatore:
Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.
Moderatore: La tensione nell’arte perché, come insegnava giustamente Giuseppe Ungaretti, che diceva che la tensione è proprio ciò che contraddistingue l’arte. Il miracolo della poesia – diceva parlando della poesia – non è tanto nel linguaggio, nelle capacità, nelle magie del linguaggio, ma nella tensione che lo mobilita e lo nobilita. E con il tema che il Meeting ha quest’anno, crediamo che interrogarsi su che cos’è questa tensione che è in gioco nell’arte, sia interessante. Io volevo fare appunto un piccolo percorso leggendo alcune poesie prese non proprio casualmente ma quasi. Che cosa vuol dire chiedersi se il poeta anche oggi può essere un viator? Questa è una domanda che riguarda tanto il poeta in quanto tale, con un funzione speciale, ma riguarda il poeta in quanto dice qualche cosa che riguarda tutti, quindi se la condizione di viator, di viaggiatore, di un uomo che cammina, di un uomo che tende, di un uomo che considera il proprio progresso come una continua tensione, è qualcosa che ha a che fare con la natura dell’esperienza umana di oggi. La poesia, come chiunque di voi anche solo per reminiscenze scolastiche sa, la poesia porta scritto nel suo DNA la questione del viaggio, dell’uomo che viaggia; pensate ai grandi classici dell’antichità: Omero, Virgilio e poi Dante, che ne ha dato come l’immagine sintetica e più compiuta in qualche senso; ma si potrebbe dire che la poesia ha sempre messo a tema e continua a mettere a tema il viaggio umano, dove questo viaggio, da sempre ha la pretesa di essere un viaggio che unifica, cioè un viaggio che conosce la realtà unificandola, un viaggio che passando anche attraverso tanti stati diversi (gli inferi, la veglia, il sogno), è un viaggio che però tende ad unificare tutte queste cose. Il poeta è un viaggiatore non appena perché trascorre tra una cosa all’altra, come l’uomo nella vita è un viaggiatore non appena perché passa da una cosa all’altra, ma il viaggiatore è tale perché il suo viaggio, in qualche modo, unifica queste cose, le mette insieme, tende ad unirle. Il poeta è quello che mette insieme il regno dei morti ed il regno dei vivi, mette insieme i sogni e la realtà (pensate a Shakespeare), e in qualche modo un poeta dice dell’umano questa tensione a viaggiare tenendo insieme le cose, mette insieme la memoria con il presente, nel viaggio nulla si deve perdere. E questo, come dicevo, non è solo di oggi, ma fa parte della tradizione di sempre. Io per fare qualche esempio, vi leggo delle poesie di popoli anche lontani, e dell’origine. Per esempio, c’è una poesia dei Boscimani che dice:
“Noi che siamo stelle dobbiamo percorrere il cielo. Noi due cuore ed alba e tu che mi sei figlia siamo parte del cielo, gli apparteniamo. Noi siamo creature celesti, tua madre è della terra, percorre la terra, dorme sulla terra, deve camminare sulla terra e nella notte, creatura della terra animale da preda che divora carni di animali vivi e illumina la nera terra con occhi che sono gialli, mogli di cuore d’alba, lince, creature dell’oscurità.” E poi va avanti: “Io sono la stella del mattino, il mio cuore è cuore d’alba”. E va avanti con questa idea del viaggio che questa stella deve fare: appartiene al cielo e cammina sulla terra.
Oppure un’altra bella poesia degli Irokesi dice:
“Nell’oscurità aspettiamo. Venite voi tutti che ascoltate, aiutateci nel nostro viaggio notturno, ora che non brilla nessun sole, ora che non splende nessuna stella, venite mostrateci il cammino. La notte non è amica, lei chiude le sue palpebre, la luna ci ha dimenticato e noi aspettiamo nell’oscurità”. Il viaggio è sempre una condizione rischiosa, la vita come viaggio suppone, porta dentro questa tensione ad unire i frammenti dell’esistenza, gli stadi dell’esistenza: la vita, la morte, il sogno, la memoria. Tende ad unire queste cose qui ma presuppone che questo qui sia un viaggio rischioso, ci si può perdere: “l’oscurità ci è nemica” dice questa poesia. Il viaggio è un viaggio sempre rischioso, perché, come dice la parola stessa “esperienza” in cui c’è una radice latina che è la stessa della parola “pericolo”, “fare esperienza” vuol dire “correre un pericolo”, fare un viaggio vuol dire correre un pericolo e tutti i grandi viaggi che la poesia racconta, compreso quello di Dante, sono viaggi pericolosi, in cui ci si può perdere, ci si può perdere nella vanità del viaggio stesso; Itaca può essere una meta illusoria che non è adeguata al viaggio; Beatrice può non essere ritrovata nel viaggio di Dante.
L’ambito del viaggio della grande poesia non è mai la letteratura: un poeta non fa mai un viaggio dentro la letteratura; porta anche tutto il materiale della letteratura, Dante porta anche con sé tutti i classici, come sapete; quindi la letteratura è portata, ma l’orizzonte del viaggio non è la letteratura, nessun poeta degno di questo nome scrive per fare un viaggio nella letteratura; lo fa inevitabilmente, ma l’ambito del suo viaggio è l’orizzonte dell’esperienza umana, è il destino, è il senso del destino.
Il tempo che viviamo – faccio un salto qui dalle poesie che abbiamo appena letto – è segnato da quel poeta da cui si dice che sia iniziata la modernità – voi sapete che gli storici hanno bisogno di queste grandi definizioni, per cui la modernità inizia improvvisamente sembra, ma poi non è vero, con Charles Baudelaire, che non a caso fa un grande libro, un grande cattolico libro che si chiama I fiori del male; cattolico perché in quel libro c’è una grande sofferenza ed è la sofferenza di un uomo che si accorge che la vita non è più unita, che il viaggio non riesce più a tenere insieme le cose, che la vita è presa in un grande dualismo: i fiori del male; e nei fiori del male la vita è sempre doppia, non è più tesa nell’unità, ma la donna è l’amante ed è anche la puttana; la madre è madre ma è matrigna; la città è un grande paradiso ma anche un formicolio infame; la vita è tutta presa da doppiezza che Baudelaire soffre, non esalta, la soffre, la patisce, tanto è vero che Eliot, grande lettore di Baudelaire dice che la grande capacità, la grandezza di Baudelaire è nella sofferenza che ha avuto.
Ma pensate subito dopo, questo nostro velocissimo viaggio, Baudelaire è un poeta che parla di viaggi continuamente, di questi viaggi nella metropoli, questo viaggiatore impossibile che è L’albatro, il poeta che viaggerebbe solo in cielo e poi in terra non sa nemmeno camminare. Ma subito dopo, il poeta che ha portato forse all’estremo questa percezione della vita come di viaggio impossibile, è Rimbaud, grande figlio di Baudelaire, grande figlio ma anche forse più grande come poeta, come genio. Rimbaud nella sua bellissima Stagione all’inferno non a caso dice – e sembra di sentire parlare un ragazzino dei nostri tempi – dice di sentirsi senza nessun antecedente, dice “io non ho nessun antecedente nella storia di Francia” e quanti di noi potrebbero dire di sentirsi così, che antecedenti abbiamo, quali sono i nostri antecedenti nella storia, quanti di noi si sentono come tappi che galleggiano nell’acqua, senza un’ appartenenza storica? Rimbaud dice: “io mi sento come uno che non ha antecedenti e quindi viaggio a partire da niente”; non a caso il suo viaggio sarà un viaggio che poi si perde in una grande immagine del niente. Rimbaud smetterà di scrivere e farà queste lunghe camminate, lui “camminatore dalle suole di vento” come si diceva, e viaggerà per l’Africa facendo mille mestieri, perdendosi in questo viaggio in qualche modo. E poi in un’altra bellissima immagine dice: “Non voglio viaggiare, non voglio vivere con Cristo come suocero” perché anche il cristianesimo proposto come suocero, con Cristo proposto come una suocera, come una moralità, appena come una moralità, non è un compagno di viaggio interessante. Rimbaud infatti rifiuta un compagno di viaggio così, dice: “io non voglio viaggiare con Cristo come suocero” già il viaggio è duro da solo, non c’è bisogno di uno che dice: “va bene qui, va bene là”. E c’è la bellissima immagine che un po’ ci descrive tutti, perché Il battello ebbro, una poesia grandiosa, in cui Rimbaud dice di essere uno che fa mille esperienze, esperienza dirette, esperienze aiutate con l’hashish. Non importa, mille esperienze come tanti oggi dicono di fare, e l’esperienza è però come una grande ebbrietudine, una grande ebbrezza, finita la quale, come dice la poesia stessa, quello che rimane alla fine è come un rimpianto, un rimpianto confuso, io dopo tutto questo viaggio ebbro “rimpiango i parapetti dell’Europa antica”; lui che dice di non avere antecedenti, alla fine di questo viaggio pieno di ebrietà, di esperienze di tutti i tipi dice che alla fine il massimo che posso fare è rimpiangere una sorta di tranquillità mitica, i “parapetti d’Europa” come la tranquillità della famiglia, apparentemente, la tranquillità delle istituzioni borghesi.
Pensate poi il tema del viaggio in Pascoli... Pascoli è il poeta che sente come l’impossibilità del viaggio, c’è una sua poesia bellissima che si chiama Nebbia in cui lui sente che le cose lo chiamano ad un viaggio, perché la realtà ti chiama a fare un viaggio, ti chiama ad una conoscenza, ad un tentativo ad un rischio, Pascoli dice “no” lasciatemi qui solo nel mio orto, come un grande rospo che sogna. Lasciatemi qui. “nebbia nascondi le cose lontane che vogliono che io vada” Nebbia, nascondi. Non voglio che la vita mi chiami. E questo è un atteggiamento che ci troviamo addosso tante volte, perché le cose ci provocano a viaggiare, le cose ci invitano a viaggiare, ci invitano a concepire la vita come un viaggio da scoprire, le cose ci chiamano in tanti modi, le cose belle, le cose brutte, ci invitano a come metterci in moto, ma prevale in Pascoli, ma come in tanti di noi, in tanti momenti della nostra vita, l’atteggiamento a dire no, a questo invito voglio resistere, preferisco stare qui, qui dove conosco già tutto, dove “conosco le crepe del muro con le valeriane” come diceva Pascoli, dove sono padrone della mia misura.
Oppure pensate come, ancora una volta il tema del viaggio, del viaggio come conoscenza, come unione, come sintesi delle cose, viene espresso dai futuristi: la velocità che cos’è? Non è appena una forma, una grande formalità: è la sintesi con cui le cose si affermano nella loro radice, quindi la velocità con cui si va in mezzo alla verità delle cose, la velocità come forma, ma che dice di una velocità ad entrare nel segreto del mondo. Il segreto del mondo per i futuristi era qualcosa da conoscere rovesciando quello che era stabilito, non sia accontentavano di quello che era stato detto, era una grande forza rivoluzionaria.
Poi nella poesia del nostro tempo il viaggio molte volte assume anche la caratteristica del viaggio dentro l’esperienza umana, cioè il viaggio non più negli inferi, o meglio gli inferi che sono anche dentro di noi, il viaggio dei poeti contemporanei (Montale, Ungaretti che sicuramente avete almeno orecchiato) è un viaggio nell’esperienza umana, per conoscere l’esperienza umana, perché il mondo è grande quanto la tua esperienza come già insegnava Leopardi; quindi conoscere la tua esperienza vuol dire conoscere il mondo e allora ci sono poeti che si interrogano e in qualche modo provano a dire che cosa è questa esperienza. Per esempio pensate ad una grande poetessa come Anna Achmatova che ha vissuto anche grandi anni terribili come la persecuzione in Russia e che per esperienza personale si trova a vivere con un figlio questa persecuzione, e dice in una poesia: “Negli anni terribili ho passato diciassette mesi in fila alle carceri di Leningrado; una volta qualcuna mi riconobbe; allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio – perché lì tutti parlavano sussurrando - : ‘ma lei questo può descriverlo?’ ed io dissi: ‘Posso’. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”. Al poeta contemporaneo è chiesto di dire, di poter dire qualcosa che sembra indicibile, come per esempio le grandi sofferenze di questi casi: la famosa frase: “Non è più possibile scrivere poesie dopo l’esperienza dei lager nazisti” che cosa significa? Che la poesia deve fare un viaggio anche dentro quell’orrore, deve poter viaggiare anche lì dentro, deve poter dire che anche quello fa parte del viaggio, e anche qui la Achmatova dice: “Io posso, io devo poter dire che cosa vuol dire stare diciassette mesi in fila davanti ad un carcere aspettando notizie di uno che non si sa”.
Oppure, per stare più vicino a noi, forse avete in mente quella grande poesia di Montale di cui parla proprio dei preparativi per un viaggio, dove tutto è preparato: le prenotazioni, i pernottamenti, le camere, ecc. e dice: ma forse tutto il viaggio si fa per il piacere di ritornare e poi come riscotendosi dal suo passo continuo un po’ scettico tipico di Montale, dice: ma forse il viaggio può avere un senso, un imprevisto potrebbe essere il significato del viaggio; e poi dice: “ma mi dicono che è una stoltezza dirselo”. Montale da vecchio furbone dice: “Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo”, ma lo dice lui, in questa forma retorica per uno scetticismo che gira intorno, come se il viaggio non potesse avere più significato; solo un imprevisto può dare significato al viaggio, ma mi dicono che è una stoltezza dirselo. Ma stoltezza è una parola di San Paolo: “stoltezza per i greci…” – ricordate questa cosa di San Paolo rispetto al cristianesimo, Gesù Cristo è stoltezza. Montale è troppo avvertito grande lettore di grandi filosofi per non sapere che quella era una parola di San Paolo.
I poeti contemporanei sono chiamati a fare un viaggio non solo nelle grandi dimensioni della vita, come la notte per gli Irokesi, come per Virgilio i regni ultramondani; ma un viaggio dentro questa esperienza uomo che è diventato come inconoscibile, che è diventato come misterioso a sé stesso. Allora Montale, allora la Achmatova, allora Ungaretti ancora, oppure sentite questa bella poesia di un poeta americano che si chiama Robert Frost che dice di sé, una poesia che si intitola Conoscenza della notte : “Io sono uno che ha conosciuto la notte – la notte americana ma anche la notte dell’esistenza – ho fatto nella notte la strada avanti e indietro, ho oltrepassato l’ultima luce della città, io sono andato in fondo al vicolo più tetro, ho incontrato la guardia nel suo giro ed ho abbassato gli occhi per non spiegare, io ho trattenuto il passo e il mio respiro quando da molto lontano un grido strozzato giungeva oltre le case da un’altra strada, ma non per richiamarmi o dirmi un commiato e ancora più lontano a una incredibile altezza nel cielo un orologio illuminato proclamava che il tempo non era giusto né errato. Io sono uno che ha conosciuto la notte”.
Nei poeti del nostro tempo, come in questo caso, il viaggio, significato qui da questo grande emblema del tempo è l’orologio, è come se non fosse né giusto né errato, io sono uno che ha conosciuto la notte, sono che fa un viaggio di cui alla fine non sa giudicare il valore, sono stato qui, sono stato là, ma anche le voci che sento non mi chiamano da nessuna parte, non sono né un commiato né un richiamo.
Oppure come dice un’altra bella poesia che volevo leggere, Il cittadino ignoto di Auden un altro grande poeta anglosassone che dice: “Lo stato dedica questo monumento marmoreo – un poeta contemporaneo morto nel ’70 – l’ufficio statistico attesta che mai fu fatta contro di lui querela, il rapporto sulla sua condotta non si dà, che non lo giudica un santo nel senso moderno di un termine antiquato, perché in ogni atto egli servì la comunità – un cittadino come noi, che non ha querele, che non si segnala per fatti strani, gente che serve la comunità –. Lavora in una fabbrica e mai fu licenziato ma piaceva ai padroni, eppure non era un crumiro, né aveva idee bizzarre, perché il sindacato attesta che pagava le sue quote e i nostri assistenti sociali hanno rivelato che era popolare tra i suoi compagni e bevevo di gusto. La stampa era convinta che comprasse ogni giorno un quotidiano, che reagisse alla pubblicità in modo strano, le polizze a suo nome mostrano che era assicurato a vita, il suo libretto sanitario prova che fu in ospedale una volta ma ne uscì guarito, le varie ricerche di mercato dichiarano che sapeva usufruire dei piani rateali e che aveva tutto quanto occorre all’uomo moderno: un grammofono, una radio, un’auto, un frigo. I vari sondaggi d’opinione rilevano soddisfatti che aveva l’opinione giusta al momento giusto – quando c’era la pace voleva la pace, quando c’era la guerra partiva. Era sposato e accrebbe di cinque figli la popolazione, numero perfetto secondo il nostro eugenista per un padre della sua generazione, le nostre insegnanti riportano che non ostacolò mai i loro programmi. Era libero? Felice? Che domande assurde, se qualcosa non avesse funzionato di certo ne saremmo informati.” Come se il viaggio dell’uomo contemporaneo avesse come notizie principali che opinione ha, se fa le cose giuste al momento giusto, se reagisce alle notizie di mercato nel modo giusto, ma se era felice, cioè se il viaggio ha un senso, se era libero, se il viaggio ha in sé l’energia per farsi, per essere rischioso, perché solo l’uomo libero rischia, rischia di fare un viaggio, lo schiavo gira intorno al perimetro che gli danno, l’uomo libero viaggia, se sei libero, se sei felice non interessa, sembra non interessare.
Oppure, ancora, - lo faccio anche per omaggiare un poeta che è morto proprio in questi giorni, il grande Milosz: perché se è vero che questo viaggio sembra non avere direzione, c’è però una cosa, che resiste, che è l’umano: “solo, misero, trionfi l’umano”, ha scritto Giovanna Sicari, una poetessa nostra amica morta poco tempo fa, a 50 anni di una malattia-. Misero trionfi l’umano. E Milosz, premio Nobel nell’’80, scrive questa poesia: “Essere innumerevoli mai ricordati ci passano sulle mappe, senza un volto al primo piano della casa vicina alla piazza, senza quei due dietro ai cespugli accanto alla centrale del gas. Le stagioni non ritornano, le nevi delle montagne, i mari e il globo azzurro della terra che ruota, ma tacciono coloro che corsero nel fuoco dell’artiglieria, caddero nel fango per ripararsi. E coloro che furono portati via di casa all’alba e coloro che strisciarono fuori dalla catasta di corpi sanguinanti. E io qui, istruttore di dimenticanza, (lui insegnava) insegno che il dolore passa, perché è il dolore degli altri, salvando sempre nei miei pensieri la signorina Yadviga, una piccola gobbetta, di professione bibliotecaria che morì nel rifugio di un edificio ritenuto molto sicuro e che crollò e nessuno riuscì a scavare attraverso le lastre del muro, benché per molti giorni si sentissero colpi e voci. E così quel nome è perso per i secoli, per sempre, nessuno conosce le sue ultime ore. Nel tempo la porta ha lo strato del piogene; il vero nemico dell’uomo è la generalizzazione. Il vero nemico dell’uomo è la così detta Storia, con la maiuscola, che attrae e terrifica con i suoi plurali. Non credetele, insidiosa e traditrice, non è, come ci ha detto Marx, l’antinatura. E se è una dea, è dea del fato cieco. Il piccolo scheletro della signorina Yadviga, il punto dove pulsava il suo cuore, solo questo oppongo contro la necessità, contro il diritto, contro la teoria.” Ecco, questo attaccamento all’umano, di cui la signorina Yadviga, di cui si è persa qualsiasi notizia, è un segno, questo attaccamento all’umano di cui magari non si sa dire molto di più è una delle caratteristiche della poesia del nostro tempo, la grande poesia del nostro tempo di un poeta come Milosz, come Auden, i grandi poeti del nostro tempo che avvertono che il viaggio che nella poesia continua, è un viaggio perché questo umano sia preservato; si possa dire, si possa ancora opporre questo alla generalizzazione che invece sembra dominare nel resto della vita. Perché la poesia è sempre l’esaltazione del singolo, della persona, del viaggio della persona.
Voglio solo leggere le ultime cose, ci sono alcuni poeti americani contemporanei, pubblicati da poco in una antologia in Italia, come Robert Pinski, che scrive in una sua lunga poesia di cui adesso vi leggo solo un pezzettino che mi ha colpito, perché dice: “In questo viaggio non dovrei votarmi a cercare solo in me stesso la mia unica retribuzione. Quanti dicono che lo scopo del viaggio della vita alla fine è stare bene con se stessi, - cercare in sé la propria retribuzione, come dice anche la reclame di “Rexona”, il deodorante: “sto bene con me stesso”, come se lo scopo del viaggio della vita è stare bene con se stessi – non dovrei votare solo in me stesso la mia retribuzione? Il viaggio, in fondo, non è solo un viaggio dentro di me? Oppure no? –Tutti i miei sensi, come antichi fuochi di segnalazione, suggeriscono gratitudine per quelle due ragazze dalla bella faccia sveglia che attraversano la piazza, bellezza data da luce o intelligenza, niente spiccioli per loro, gambe lunghe che balenano coraggiose, e, come se gli uomini dovessero farsi avanti, pavoneggiandosi in uniformi bianche con la spada. Come potremmo mai aspirare a tale eleganza e intelligenza.” Invece che votarsi a cercare in sé il significato del viaggio, Pinski dice: i miei sensi, il come sono fatto è come un antico fuoco di segnalazione che nella realtà vede i segni che mi chiamano ancora ad un viaggio che è fuori di me, che è per qualcosa che è fuori di me. Non è solo dentro di me, è qualcosa che devo cercare anche fuori, perché sono fatto come una cosa aperta; l’uomo è fatto come una cosa aperta, come una domanda aperta. E, se non altro, i suoi sensi, per due ragazze belle che passano lo invitano a un viaggio, non lo fanno stare contento di sé. Noi non siamo, in fondo, mai contenti di noi, cioè soddisfatti, tanto è vero che questo poeta suicida dice: “l’uomo persuaso, cioè l’uomo che si accontenta di sé non deve credersi nato, cioè deve far fuori la nascita, deve far finta di non provenire da niente, deve far finta di non essere legato a niente, mentre tutti i nostri sensi ci fanno legare a qualche cosa. Dice un altro poeta contemporaneo americano: “È vero che in un mondo senza paradiso (la parola “paradiso” va qui intesa come un mondo senza un punto bello, di compimento, di pienezza; senza Beatrice, avrebbe detto Dante, probabilmente) tutto è addio”, come se il viaggio, come ha detto qualcuno, fosse come una serie infinita di addii; il viaggio è solo dare addio lentamente alle tutte le cose. Senza paradiso, cioè senza un punto di compimento, la vita è un viaggio in cui tutto è addio, sia che tu saluti con la mano, o no. È addio. E se non ti salgono le lacrime agli occhi, è addio lo stesso; e se fingi di non accorgertene, odiando ciò che passa, è addio lo stesso, addio e basta. Questo dice Strand.
Finiamola qui con le poesie, sono già troppe! Era solo per dare un piccolo assaggio (gli ultimi che ho letto sono tutti poeti viventi) per dire il tema che cosa è il viaggio, che cosa significa essere viaggiatori, che cosa significa essere un’esperienza, è potente, è via anche nella poesia di oggi, nella grande poesia di oggi. In questo senso, Dante (e qui mi esprimo personalmente) rimane un punto di paragone interessantissimo, non appena un classico che bisogna leggere, perché se no non puoi scrivere, non un problema culturale, appena; ma culturale in senso vero, in senso di coscienza critica dell’esperienza che si fa. Perché Dante è interessante per l’esperienza che si vive? Perché Dante fa un viaggio infinito e vario (ne parleremo meglio martedì), il cui scopo è quello di rivedere Beatrice; cioè di rivedere quello che aveva incontrato e che Montale, giustamente, chiama “un miracolo”, perché senza un miracolo (il miracolo di fronte a cui si spegne il cinema della commedia) non è Dio, non basta Dio come miracolo. Il miracolo di fronte cui Dante perde il senno, la visione, di fronte a cui la visione si compie, si spegne (e la poesia si compie nel silenzio) non è Dio, ma l’incarnazione. Perché solo il miracolo dell’incarnazione rende tutto ciò che incontra nel viaggio non-vano, non senza valore. È perché c’è l’incarnazione, cioè Dio che prende l’umano, Dio che si è fatto uomo, Dio che nobilita l’umano: se c’è questo miracolo allora il viaggio nelle cose umane non è un viaggio tra cose perse; allora, Beatrice non è persa, allora anche il miracolo che hai incontrato non si perde. Insomma, un viaggio è possibile, ed è possibile reiniziarlo sempre, se, in qualche modo, c’è un miracolo nella vita. C’è un miracolo che fa capire non tanto, come in una questione geometrica, che c’è un punto cui arrivare, perché il senso di un viaggio non è appena che c’è un punto cui arrivare; il senso di un viaggio è che c’è qualche cosa che rende interessante tutto. Il senso di un viaggio non è per un punto terminale, un punto al di là del quale arrivare, il senso di un viaggio (e qui la parola “senso” ha quasi il significato del sapore, ha un senso, è qualcosa che sento, è un sapore che sento) è qualcosa che mi permette che ogni cosa incontrata durante il viaggio abbia un valore, abbia un peso, sia interessante da incontrare. Per questo il “miracolo” di Beatrice per Dante è ciò che dà senso a tutto il viaggio, non è appena un punto terminale. E l’incarnazione che lui vede alla fine, come visione finale del suo viaggio, era il miracolo da cui si era mosso, perché Beatrice non è la teologia, non è la fede, non è una donna come le altre; Beatrice è l’incarnazione, è il miracolo dell’incarnazione. È questo che Dante ha visto, è questo che Dante non vuole perdere; e fa tutta la vita e tutte le cose umane dando un peso e un valore eterno a tutte le cose. Per questo il viaggio, il senso del viaggio rimane il problema che abbiamo noi quando scriviamo della nostra vita, e che chiunque di noi ha nel momento in cui considera se stesso, sia che ne scriva sia che non ne scriva. Dopo questa mia cavalcata un po’ confusa do la parola a Paolo Valesio. Lo ringrazio perché è arrivato stamattina, quindi ha ancora il jet-lag che sta smaltendo qui con noi. Lo ringrazio per il sacrificio che ha fatto, ma credo che per noi sia una bellissima occasione quella di poterlo ascoltare.
Paolo Valesio: Davide gentilmente ha evocato il problema del jet-lag. Penso di fermarmi un momento su questo, non per farvi perdere tempo con la mia biografia, ma perché io credo che, più gli anni avanzano, un intervento, una conversazione, una presentazione, sia radicata in un qualche cosa che il “conferenziere” –chiamiamolo così- non può mai prevedere e che i greci chiamavano kairòs, il momento in cui si comincia a parlare, che non si può prevedere. Mi permetto allora di ritornare non al personale sfasamento di fuso orario, ma a quello che può significare simbolicamente. Sapete benissimo che il viaggio NewYork-Roma dura fra le sei e le sette ore, e dunque un viaggio fondamentalmente molto rapido. Che significa questo? Significa qualche cosa di molto pericoloso, che ci dà l’illusione di poter passare con disinvoltura da un paese all’altro e, per così dire, di controllare la situazione. In realtà, lo sfasamento di fusi orari, il fatto che per me continui ad essere l’ora di pranzo, non è soltanto un aneddoto personale, ma il simbolo di due profonde differenze: alcune ore fa passavo attraverso città tempestate di pioggia, e fondamentalmente in stato di pre-assedio (New York, che si prepara al congresso del partito repubblicano; una città quasi bloccata, una città abbastanza cupa, una città formicolante di vita, ma molto tesa). Il salto da questa città a Rimini è assolutamente sconvolgente; e qualunque parola abbia appuntato a New York qui rischia di non avere molto senso. Però il tema è sempre un viaggio -non parlo più adesso del mio viaggio- ma del viaggio come, con grande eloquenza ha evocato Davide Rondoni. Tornerò a questi due paesi illusoriamente simili, voglio dire gli Stati Uniti e l’Italia, in cui la diffusione della lingua inglese, dei consumi inglesi, delle canzoni inglesi, ecc. ci danno l’illusione della vicinanza. In realtà, secondo me, sono sempre più lontani. Una differenza tra le varie differenze, su cui vorrei soffermarmi per qualche istante con voi perché penso possa essere interessante. E’ nata l’idea di una antologia da due poeti italiani, un giovane poeta veneto e un anziano poeta napoletano che presero contatto con me e mi proposero di mettere insieme questa antologia e l’idea mi parve buona. L’antologia è finalmente pronta e, naturalmente, con gli inevitabili compromessi, non in un senso negativo: alcune preferenze loro, alcune mie, alcune preferenze che, chiaramente ci vedevano tutti concordi; non entro in questi dettagli che sono dettagli troppo tecnici, sono, se vogliamo i dettagli della cucina, del retrobottega. Il punto che mi ha colpito è stato che per i miei due interlocutori (uomini tra l’altro spiritualmente all’erta e molto laici, molto liberi), il termine poesia religiosa era automaticamente, tranquillamente, a-problematicamente legata al cattolicesimo. Per loro non c’era questione: poesia religiosa significava che si stava parlando di poeti cattolici. Questo è possibile in Italia oggi, e non mi pare né negativo né positivo: è un fatto della nostra storia e della nostra tradizione, ma è impossibile negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti oggi (dal punto di vista della problematica religiosa che voi affrontate direttamente o indirettamente e che si ripropone nei modi drammatici nel conflitto fra ragion di stato e ragion religiosa), antropologicamente il proporre un’antologia di poesia religiosa negli Stati Uniti, evocherebbe immediatamente un problema diplomatico e politico, un problema di quote, di presenze, un problema di par condicio, sostanzialmente, che vede soprattutto le grandi comunità religiose, i cui rapporti sono drammaticamente fusi e confusi, fratelli e rivali, la comunità ebraica e la comunità cristiana. Un’antologia che osasse proporre in inglese poesia religiosa, sarebbe pesata pagina per pagina, per vedere chi è, chi rappresenta e che cosa. In area anglosassone non si dice mai “cattolico”, ma si dice con un termine che io credo sia nato con Martin Lutero, “cattolico romano” che indica una distinzione, una limitazione.
Io vorrei rivisitare un momento queste due categorie: il viaggio come novità, il viaggio come ricerca dell’uomo, e, giocando sul termine latino viator (termine chiaramente del latino cristiano), il tema del “religioso”. Io credo che, come informazione di sfondo, viviamo oggi (non so se questo può essere interessante o no, pertinente o meno, ma mi sembra necessario insistervi), un’antologia di poesia religiosa, la differenza non sta nell’essere scritta in italiano o in inglese; la differenza è innanzitutto culturale o antropologica. Negli Stati Uniti noi viviamo in una situazione sorprendentemente simile a quella di un testo, a cui mi riferirò fra poco in una citazione, che è la cristianità dei primi secoli, in cui c’erano due comunità rivali e sorelle che ancora non si conosceva che cosa fossero: la comunità ebraica e la comunità cristiana. Dunque, quando dico viator, in una dimensione globale, non posso non evocare una tensione-distinzione. Il tema della novità, il viaggio, tema lanciato da Davide Rondoni, pone per me fortemente il problema dell’uomo. Il tema dell’uomo mi è riapparso recentemente vedendo un film molto discusso ben noto qui in Italia e velocemente passato anche negli Stati Uniti, in cui a un certo punto la figura di Gesù alla domanda “perché fai tutto questo?” il protagonista del film risponde: “per fare nuove tutte le cose”. Alcuni recensori ostili sono subito saltati sulla cosa dicendo che questa non è una frase che Gesù dice nei vangeli”; ed è vero: il regista si è preso la licenza poetica che io trovo del tutto lecita, mettendo in bocca all’Uomo della Passione la frase che appare nel libro che noi chiamiamo Apocalisse e che la traduzione inglese, traducendo letteralmente il greco, chiama Revelations, il libro delle rivelazioni. Verso la fine di questo libro straordinario, un poemetto in prosa, scritto all’epoca delle persecuzioni dell’imperatore Domiziano in ambiente giudaico-cristiano, (siamo verso la fine del primo secolo dopo Cristo, secolo che ha una somiglianza straordinaria, ripeto, con gli Stati Uniti del 2004), un personaggio divino dice “colui che sedeva sul trono disse: «ecco io faccio nuove tutte le cose»”. Vorrei, in sostanza, soffermarmi su questa frase e su due altre frasi e così concludere il mio breve intervento. Questa frase evoca evidentemente una quantità di problemi, ed evoca per me soprattutto -e qui mi riallaccio all’antologia di Davide Rondoni- il problema del modernismo; qui è evocato il problema della modernità, che ha citato il poeta che, nel bene e nel male, fonda la modernità, cioè Baudelaire; siamo intorno al 1850-60. Vorrei evocare brevemente un poeta, un grande discussissimo poeta americano, tragicamente discusso e discutibile, che fonda secondo alcuni di noi il modernismo, cioè un particolare stile, una particolare pronuncia, una particolare tendenza che in Italia nasce con il futurismo, ovvero Ezdra Pound. E.Pound, in un suo famoso saggio che dà il titolo alla collezione di saggi da lui pubblicati negli anni Trenta, il saggio ”eponimo”, che dà il titolo alla collezione di saggi, è una esortazione poetica e dice: ”rendetelo nuovo”; in italiano suona un po’ goffo, ma in inglese si dice Make it new. È difficile tradurre questa semplice frase: che cosa è “it”? Qualunque cosa facciate rendetela nuova. Io non credo che Pound avesse in mente, non per ignoranza, ma che gli interessasse l’ambiente giudaico-cristiano; credo che la frase di Pound sia completamente laica; credo che il poeta viator, il poeta che pensa alla poesia come viaggio, sia anche sospeso fra queste due frasi, nessuna delle quali mi sento di fare direttamente mie; la prima, per ovvie ragioni teologiche: né io né qualcun altro pretendiamo di far nuove tutte le cose. Piuttosto, e questo era stato il mio suggerimento nella prima versione degli appunti, con una certa ironia, (per prima cosa autoironica) potrei fare qualche cosa nuova, non tutto, anche se il poeta è spesso considerato un demiurgo, ovvero un “piccolo dio”, o come diceva ironicamente Goethe, un “mezzo dio”. E dunque, non è che si possano fare nuove tutte le cose. Ma, a parte ciò, il tono che Pound poteva avere ancora negli anni Trenta – Fa’ che tutto rinnoviate, qualunque cosa fate rinnovatela- anche questo, perfino questo sembra eccessivamente ottimistico, eccessivamente ambizioso. Credo che il poeta, oggi, non possa più permettersi di dire nemmeno questo, a parte il fatto che questa frase poundiana ha un senso tecnico, non teologico, non metafisico; sta parlando, in sostanza, soprattutto di novità formali. Ma penso che anche questo ottimismo, questa idea che è del modernismo, di potere veramente rinnovare, sia oggi posta in questione in un modo che non ci consente -anche se io ammiro, e continuo a pensare fondamentale l’esperienza futuristica- di ripeterla, diciamo così, acriticamente. Nel viaggio noi possiamo conoscere qualcosa di nuovo, nel viaggio possiamo fare qualche cosa di nuovo, non molto; il viaggio, sono d’accordo ancora una volta con Rondoni, è un viaggio esperienziale, in cui, in fondo, l’esperienza tra il poeta e il non poeta, non è essenziale. Il poeta è semplicemente un testimone al limite che drammatizza questo concetto del viaggio, in modo riconoscibile e commovente, in modo in cui ci possiamo emotivamente identificare, in quanto colui o colei parla del viaggio che è di tutti noi. Qual è allora, o almeno per me, in questo tentativo di circoscrivere una visione del problema, non in una tenaglia, fra due culture (vorrei insistere su questo fatto); spero che voi accettiate il mio italiano come l’italiano di persona che lo parla come lingua materna: il punto non è se si parla italiano o inglese. Il punto è da quale cultura, nel senso antropologico, da quale contesto nasce un discorso.Il mio discorso è necessariamente ibrido, perché nasce da due culture, le quali si intendono fino a un certo punto. Per me il fascino del viaggio (che ha tanti aspetti: l’esperienza, il passaggio di soglia, il passaggio iniziatico, la conoscenza di cose nuove, ecc.) è legato a un processo che vorrei chiamare, più che di trascendenza, di trascendimento, di andare al di là. Ho cercato di rendere questo concetto con il titolo (ritorno così all’occasione, o meglio al discorso) di questa antologia “Oltre l’oltre” -sottotitolo che spiega più o meno che cos’è- “undici poeti italiani sul sacro”. Torno un momento su questo “Oltre l’oltre” che non è una frase mia, molto poetica, ma di un poeta che ha fatto la sua comparsa lateralmente, ma molto cospicuamente, nella nostra tradizione ovunque e quantunque noi parliamo di poesia: Dante certamente, ma Rondoni ha fatto anche il nome di Shakespeare. Chiederei il permesso di leggere quattro versi e mezzo (non porto via molto tempo), in inglese e poi in italiano. In inglese, per rendere omaggio alla vera radice della poesia angloamericana (termine che agli americani non piace assolutamente, ma la letteratura americana non è solo americana, ma proprio angloamericana): le radici di tutti i poeti che Davide ha letto sono inevitabilmente tutti in Shakespeare. Con questa mia proposta voglio dire due cose: primo, che è quasi impossibile tradurre Shakespeare, perciò farò una traduzione lineare, però non posso, così come nessun artista dopo Eliot citerebbe Dante senza prima aver tentato almeno di dirlo in italiano, così io non posso citare Shakespeare in italiano semplicemente. Debbo tentare per un momento di evocare un suono diverso. Sono versi marginali; un grande poeta, secondo me, ma la “diabolica” abilità (se posso usare questo aggettivo) di un grande poeta è di essere vivo e grande anche nei momenti marginali, nelle opere cosiddette minori. Questa è una tragedia che non credo tutti conoscano, “Cimbelino”, una strana tragedia, un po’ pasticciata, che si svolge per metà in una Inghilterra tutta inventata, dei tempi precedenti a Re Artù, e metà, con grande disinvoltura, nell’Italia rinascimentale, come se fossero cronologicamente legate. Finisce con l’invasione romana della Britannia, quindi Shakespeare mescola due o tre ere della storia con grande disinvoltura. Mi è capitato di vederla rappresentata a teatro due volte in tre settimane, in versioni completamente diverse, in cui funzionava la grande abilità teatrale di Shakespeare, ma alcuni versi mi colpirono entrambe le volte con estrema emozione, per cui dovetti tornare a casa a verificarli. Una giovane principessa, Imogene (sono nomi più o meno italiani) sta cavalcando verso la costa dell’Inghilterra, per incontrarsi clandestinamente con lo sposo esiliato tornato di nascosto, accompagnata dal suo fedele servitore che si chiama Pisanio. In questa parte, verso il mezzo, la principessa dice in sostanza che ha tanta voglia di rivedere il suo sposo. Entriamo subito nel tipico gioco concettuale shakespeariano: lei dice che ha tanta voglia di rivedere il suo sposo, ma che stranamente anche il servitore ne ha voglia, però lei ne ha più voglia: [versi in inglese ] “Allora, fedele, Pisanio,che brami come me di vedere il tuo signore, che brami, lasciami moderare ciò che ho detto, ma non come me tu brami in più debole modo, o non come me, perché la mia brama è oltre l’oltre”. Ora, è chiaro, io non voglio allegorizzare Shakespeare; già, secondo me, è più pericoloso allegorizzare Dante che pure ci incoraggia, ma non ho alcuna intenzione di allegorizzare Shakespeare, però mi pare che con la tensione estrema di questi versi si vada al di là del rapporto erotico e coniugale, la sposa che desidera lo sposo, e questo lord e questo desiderio diventino qualcosa di più, quasi naturalmente: non c’è bisogno ripeto di pensare a un’allegoria cristiana, vedo un percorso naturale, continuo, velocissimo di un desiderio che va oltre il normale, il limite dell’umano in modo naturale, veloce e quasi quotidiano. Davide Rondoni aveva evocato un poeta che è famoso per una frase secondo me erronea, ma che ha fatto molti danni alla traduzione, Robert Frost dice: “La poesia è quello che si perde in traduzioni” io non credo che la poesia si perda in traduzione, io credo che la traduzione che vi ho letto, anche se, molto modesta interlineare, comunichi la bellezza di questo passo. Quando l’ho scritta, anche se l’ho scritta in margine ad un foglio, ho usato una parola che sul momento esitai a scrivere e cioè “bramare”; bramare è una parola forte, è una parola che alcuni traduttori di oggi di Shakespeare dicono che è troppo breve e vogliono usare “desiderare”. Io credo che il passo che vi ho letto meriti la scelta “bramare”, per una strana coincidenza: correggendo le bozze correggevo una traduzione inglese di un sonetto, che adesso non vi leggo, della grande poetessa cristiana e musa di Michelangelo, Vittoria Colonna; e mi è balzata agli occhi la parola bramare che mi ha autorizzato a insistere su questo discorso della brama che, come seconda e ultima citazione, è di Vittoria Colonna che parla di sé stessa che vive in una sorta di esilio, vive in un’isola esiliata e impervia lontana dai luoghi della cultura e dello spirito: “Vivo su questo scoglio orrido e solo, quasi dolente augel che il verde ramo e l’acqua pura aborre e a quelli che amo nel mondo e da me stessa ancor m’involo, perché espedito al sol che adoro e colo vaga il pensier e se ben quanto bramo l’ali non spiega, pur quand’io il richiamo volge da l’altre strade a questa il volo”. Sono versi molto difficili; c’è fra l’altro un latinismo “colo” che è adorare (un latinismo molto duro), ma in sostanza c’è l’inquietudine tipica del vero mistico che non è mai contento e dice appunto io cerco di andare col pensiero a questo sol e non ci vado quanto voglio, non ci arrivo quanto io voglio ma almeno, quando io richiamo il mio pensiero verso questo sole almeno provo a volare verso il sole, perché “espedito al sol che adoro e colo vada il pensiero e se bene quanto bramo l’ali non spiega pur quand’io il richiamo volge da l’altra strada a questa il volo”: l’altra strada è la vita normale che lei si è lasciata dietro questa specie di volo in alto e almeno rivolge il volo, almeno tenta di volarci, almeno punta. Non è questo il solo senso, ovviamente di viaggio. Io credo fra l’altro che nel primo intervento si è insistito soprattutto sulla dimensione esperienziale, orizzontale di viaggio attraverso i paesi, naturalmente con implicazioni spirituali, viaggi da un paese, da un luogo all’altro, spesso ho evocato prima questa problematica estremamente concreta, a tutti noi costantemente nota, in una civiltà che ha l’ossessione del viaggio, fra l’altro, viaggio da un luogo all’altro ce n’è più che abbastanza da fare poesia e da rifletterci. In questi due passi che vi ho letto vedo un viaggio che subito, in modo continuativo, in modo graduale, sale verso l’alto, la cavalcata di Shakespeare verso la costa inglese, questo beyond e questa donna isolata che cerca di volare, non ci riesce ma cerca di volare. Che significa? Ci possono essere vari sensi: uno può anche dire che il poeta oggi non è più viator. Io ho tutti i miei colleghi più acuti e intelligenti, italiani e americani (non quando scrivono poesia e allora volano), quando scrivono di poesia sono estremamente scettici, estremamente nichilisti, estremamente cupi, trovo in loro costantemente la pars destruens e non la pars construens e parlo dei migliori, di quelli da cui imparo; non è facile non è ovvio dire che il poeta è viator, io penso che lo sia ma sto cercando in modo goldoniano in che senso lo sia.
Due considerazioni: una è che questa continuità io la vedo e l’ammiro e mi emoziona profondamente, questo senso di corsa lo trovo molto difficile e a volte sento e credo che molti dei poeti che più amo lo sentano una specie di divisione, una specie di divorzio, una specie di differenza, per cui la presenza del divino nella poesia sia anche un ostacolo e anche un tormento; esprime anche, provoca anche movimenti di ribellione. Io credo che il grande dialogo della poesia spirituale sia il dialogo con la non-credenza, e quindi io credo che la poesia che io trovo più persuasiva è una poesia che si pone continuamente il problema della non-credenza, della difficoltà di viaggiare in questo senso, con momenti di ribellione, al limite della blasfemia, penso a un poeta come Testori, penso allo stile di Testori. Punto primo, il viaggio che ho descritto è un viaggio che io ammiro, è un viaggio che vorrei seguire, è un viaggio che mi sembra che in questo momento di grande barocco rinascimentale fra Shakespeare e la Colonna trovino espressioni bellissime e persuasive, ma è un viaggio che oggi per me pone soprattutto il problema dell’ostacolo di quello che ci sta nel mezzo, che possono essere tante cose: piattezza, inerzia, nichilismo forme esteriori espressive di religiosità ecc.
Secondo punto, la parola che io ho evocato: il “sacro”. Sacro secondo me è una parola usata e abusata; è difficile trovare una poesia (anche la poesia più materialistica anche la poesia più ribelle, più nera e disperata) che non abbia il senso del sacro perché il sacro in fondo, come il termine latino dice bene, è ciò che sta al di fuori della normale nostra esperienza, voi sapete benissimo che il latino “sacer” si applicava sia al sacerdote, sia al parricida, il parricida è sacer cioè è fuori dai confini della città, non può essere accolto nella città è già un sacrificio umano lì, chiunque lo può uccidere, in questo senso sacer. Quindi l’espressione di eros e di thanatos, le nostre esperienze al limite, sono in fondo sacre se noi le guardiamo con rispetto, se noi ci scriviamo sopra poesia e quindi ci concentriamo su di esse con forza e foga. Dire che una poesia si occupa del sacro è dire quasi che poesia è poesia, poesia intensa, non ci serve come strumento distintivo, è troppo generica. Allora se all’interno della poesia del sacro, della sacertà della poesia, permettetemi questo, se all’interno della sacralità della poesia cerchiamo di distinguere il religioso in poesia (e quindi delimitate alcuni poeti che hanno questa tematica da alcuni che non ce l’hanno), c’è il pericolo opposto, cioè di creare, come evocavo all’inizio, delle barriere confessionali. Però io credo che il religioso sia una coltivazione del sacro all’insegna della speranza e quindi vedo poesia in chiave religiosa almeno nella tradizione cristiana, è una poesia che contiene della speranza, quindi la definizione è lecita, ma va fatta con mano molto leggera perché la disperazione, se permettete un termine barocco, la disperanza provoca grande poesia; la speranza è difficile, sia da coltivare nella nostra vita, sia a fare in poesia, perché la speranza in poesia può diventare un po’ troppo oleografica, può diventare un po’ troppo edificante, può diventare un po’ troppo predicatoria e allora il cammino del viator in senso pieno, religioso più che sacrale è un cammino di speranza, ma il compito difficilissimo del poeta contemporaneo è quello di descrivere questa speranza in tutta la sua difficoltà e in tutta la sua costante possibilità di cadere nella di speranza. Io non sento la poesia del viator, la poesia spirituale, la poesia della speranza se io non sento l’ombra continua, il timore, il brivido, la vibrazione, come volete voi, della disperanza, rischio di leggere una poesia non autentica, e temo che la poesia che leggo possa non essere autentica. Molto della poesia religiosa che io leggo in Italia e negli Stati Uniti ha questo tono lievemente troppo rassicurante e non credo che il compito della poesia sia quello di essere rassicurante. Ecco la sfida del poeta viator: io credo che i grandi siano “aviatori”, e io credo che sia un ruolo che non possiamo non considerare; la sfida è però non soltanto tecnica: “Ditelo in modo nuovo” diceva il modernismo di Pound “Dite qual che volete, ma ditelo in modo nuovo”: io non credo che sia semplicemente un concettismo, un formalismo, un manierismo, anche se tutto c’è tutto questo e più in Shakespeare: sono versi manieristi elegantissimi ma c’è l’oltre, andare oltre l’oltre dà la vertigine, andare oltre l’oltre deve contenere la speranza; perché se no perché si va oltre l’oltre? Però il poeta deve farci sentire sempre la possibilità della di speranza, il valde aliud come dice la tradizione cristiana, l’estremamente altro, il totalmente altro, che può essere anche l’altro della disperazione. Il poeta deve intrattenere questa possibilità e non lo fa per maledettismo generico, non sto parlando di un maledettismo, un moralismo generico, sto parlando del fatto che se il poeta non ci fa sentire il rischio, lui, lei, la sua poesia, rischia la inautenticità. La speranza è dialetticamente connessa al suo opposto.
Moderatore: io credo che, per usare l’ultima parola usata dal professor Valesio, non ci sia domanda più rischiosa di quella: “Chi è che fa nuove le cose?” “Come è possibile che le cose siano nuove?” La risposta a questa domanda è il rischio dell’esistenza, la risposta che tu dai a questa domanda è il rischio che ti assumi per l’esistenza. E’ decidere, scegliere di aderire a che cosa fa nuove le cose, questo è il vero rischio dell’esistenza come giustamente diceva anche adesso Paolo: non è mai risolvibile se non in maniera drammatica, è un rischio che è sempre in corso. Anche la poesia di questo tempo, come abbiamo cercato di dire, è una poesia in cui questo rischio si documenta, questo rischio viene detto e viene in qualche modo rilanciato alla libertà di ciascuno.
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