Seguo con interesse Paolo Sorrentino da quando mi parlarono di lui alla Key Films: stava per uscire con L'uomo in più che ritengo, assieme a Le conseguenze dell'amore, il suo lavoro migliore. Personalmente, ho trovato buono anche Il Divo mentre non mi hanno convinto, il manieristico e un po' derivativo da Garrone, L'amico di famiglia e il film «americano» con Sean Penn (quest'ultimo è due film in uno, come scrissi dopo la visione, con, in più, quella gratuita immissione di «tematica ebraica» nella seconda parte, che mi pareva un po' incollata). Il film premiato con l'Oscar (di cui non dissi né bene né male né prima né dopo la vittoria, limitandomi a qualche commento o nota a caldo) non è una Grande Bellezza ma una Bellezza rubata in forma anti gestaltica; il che non sarebbe negativo, viste anche le considerazioni finali in bocca a Gambardella, se non fosse mimata in una grande posa ammiccante, piaciona e un po' compiaciuta, (estremizzo rudemente un passaggio che il bravo Valerio Caprara, critico napoletano, ha solo abbozzato in una recensione prima dell'Oscar), gigiona e gagà (caro Cotroneo, anche grazie al Servillo che è un attore meno vocato a esprimere la sofferenza, nevrotica, lombardo- sabauda di Volonté; bravo invece nel restituire cinismo, disincanto e disillusione svagata), con annessi detti memorabili ad effetto, un po' come dei mottetti sapienziali (che è un po' un vizio di scrittura di Sorrentino, credo, più che di Umberto C. visto che è presente anche nei film scritti senza lo sceneggiatore padovano) e una quasi parodia derivativa da un Fellini shakerato e postmodernizzato, con infusioni altre (non solo Scola o Petri o il Ferreri con Jannacci protagonista, ma anche cose più recenti come l'aria o l'aura di American Beauty, o certa atmosfera plumbea e depressa dell'Altman di America oggi); è un film sul vuoto che rischia continuamente proprio di cadere nell'oggetto oscuro che - con l' ecolalia dei suoi movimenti di macchina - vuol rappresentare ... E il troppo o il denso delle inquadrature e dello stile (diciamo all'opposto di un Bresson o di un Dreyer) non è forse la spia di questo horror vacui? O forse che il vuoto non possa che essere rappresentato ammassando - come in un vecchio e polveroso magazzino - cose e figure vuote, al limite della decomposizione fisica, come la Santa sdentata? (parodia - credo  - di Madre Teresa di Calcutta). Oltre al bel personaggio della Ferilli, alla giusta osservazione sull'importanza delle radici, alla caricatura del guru dispensatore di una bellezza effimera e truffaldina, all'artista che dà le capocciate e sente vibrazioni che non riesce a spiegare, il film lascia però, nella summa, un senso di rassegnata, cinica e depressa malinconia e una mezza tinta di elegia: si possono cogliere solo schegge della Grande Bellezza e l'insensatezza del ballo della vita; mortifero ma senza il fuoco di un vero dramma (vicino in apparenza e, al tempo stesso, lontanissimo dal Melancholia di Lars v. T. - potentissimo) ... La Grande Bellezza l'ho guardato in tv una seconda volta e mi è sembrato peggiore di quando lo vidi al cinema e non mi convinse, pur apprezzando e godendo la visione. Di contro, ho visto L'eredità (2003) di Per Fly e mi è parso ancor più bello e intenso di come lo ricordavo.
Dunque: nello spazio che separa l'oggi dalla notte degli Oscar, ho visto almeno tre film migliori di La Grande Bellezza: Her, il polacco Ida e il sopra nominato danese. Eppure, non è che sia andato tanto al cinema né che abbia visto molta tv.
Mi piacerebbe vedere i films con i quali Sorrentino si è scontrato, vincendo: specie quello di Vinterberg, di cui conosco altri lavori ... Nella categoria Usa, invece, meritava molto di più American Hustle ma - da un' intervista al regista - ho capito che questi non ci sapeva fare nelle p.r. - come pure, in altre occasioni, non furono troppo "diplomatici" né Lars von Trier né Roman Polanski ... Peccato che un regista - oltre alla cura delle p.r. - debba anche essere furbetto (o - con parola abusata ma ancora valida - politicamente corretto) a partire dalle cose che pensa e scrive o da quel che poi dice alla stampa (caro Cotroneo, lo saprai, ci sono delle costanti che - con qualche probabilità, non con l'assoluta certezza, ovvio  -  ti permettono di piacere all' Oscar o altrove, esiste un modo furbo di spianarsi la strada o di relazionarsi, esistono i films da, o meglio, per festival etc.). Questo in generale, non m'interessa se sia o meno il caso di Sorrentino che per me è molto bravo: va così e basta. Tuttavia, non tutti ne hanno bisogno: chi è geniale come Kim Ki-duk o Wong Kar-wai o Lars von Trier o David Lynch etc. può anche provocare o fregarsene delle mode o delle costanti del pensiero o delle lobbies o del politicamente corretto  ... Perché loro, secondo me, - e pochi altri - sono già oltre ... Tutto questo per dire (a Cotroneo o a te, hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère!), che per me l'autenticità, la necessità e la verità di un film sono ancora valori che toccano anche l'estetica, assieme a quelli linguistico formali; alla ricerca dell'espressione o dell'espressività profonde di un' opera (ammesso che il cinema sia ARTE e non plebiscito contro il buon gusto al quadrato - come Carmelo Bene sosteneva, riprendendo un'affermazione sul teatro del folle filosofo tedesco) e non tanto della di essa comunicatività o comunicazione (studiata o a effetto) ... Per questo amo i Dardenne e quel Bruno Dumont de La vie de Jésus e di Hadewijch, visto in originale, mai distribuito in Italia; e il Nosferatu di Murnau o i films di Dreyer o Truffaut o Rossellini o Chaplin; e Hitchcock e Welles; ma anche tutto Zurlini, quel suo tocco inconfondibile, e tanti altri e la stella di Tarkovskij: un certo rigore formale, poesia, bellezza e verità ... Resto ancora keatsiano e lunare ...   

Se fossero vivi, Dostoevskij e Pasolini ci avrebbero pisciato sulle mura romane della Grande Bellezza versione Sorrentino! A Dostoevskij, invece, sarebbe piaciuto il polacco Ida; a Pasolini, non so, forse Reality di Garrone o qualche film del bravo ma quasi sconosciuto Capuano.  Però a Cotroneo piace (certo, l'ha rivelato dopo l'Oscar ma, se non era coda di paglia, è stato quantomeno onesto intellettualmente nel precisarlo in apertura di recensione) ... Liberissimo di pensarlo, ovvio, mentre si prende il caffè americano al Salotto 42 in Piazza di Pietra, facendo qualche arabesco sul foglio, in memoria della battuta di Flaiano, e guardando, di tanto in tanto, al tempio di Adriano ... Io in quello stesso caffè - snob e non cordialissimo - ho vissuto altre emozioni, dai discorsi con una amica poetessa che abita in zona, alle bevute con altri amici, ai baci rubati a una ragazza sudamericana bella e luminosa.
Ma forse Cotroneo è più solo e pensoso (anima sabauda) o forse si mette lì in posa o a lavorare e, magari, "acchiappa" pure? Beato lui se riesca a concentrarsi in quel luogo! Io scrivo (pochissimo) a casa e, solo e pensoso, passeggio come Jep: Gambardella c'est moi! ... (Però non ho ancora il potere di far fallire le feste così come non l'ha Cotroneo, finito il tempo - come lui sostiene - delle intellighenzie e della classe intellettuale di respiro e livello europeo; io aggiungerei: finito il tempo del Potere come volto o volti fisici e giunto quello del Potere come ingranaggio) ...

La Grande Bellezza sembra la traduzione del mio secondo libro, ancora inedito, di poesie (con molto mondo e vissuto romano) ma in una versione che non mi corrisponde. La traduzione giusta ed empatica - pur non parlando di Roma - sboccia nel film Her (e posterò - nella mia pagina facebook - la recensione di Cotroneo al film, in questo caso da me condivisa) ...  
La Grande Bellezza, il film, l'ho difeso da attacchi più pesanti e cattivi, di provenienza varia, ma, pur considerandolo un film importante, ipnotico, denso, dagli echi profondi, dai suggestivi tagli delle inquadrature, dalla fotografia e colonna sonora curatissime, da vedere e rivedere nel tempo,  non mi ha convinto né emozionato né vellicato la mente: una tentazione più che una passione, un'idea bella in potenza, ma disciolta e un po' dissipata nell'atto: una nuvola grigionera di passaggio, suggestiva sì, dalle forme barocche ma pur sempre greve e fuggitiva ...     

Commenti

  1. Cosa intendo quando scrivo: "una Bellezza rubata in forma anti gestaltica"?

    teoria strutturalista della Gestalt

    Teoria psicologica contemporanea (nota anche come Gestaltpsychologie, o psicologia della Gestalt, o della forma) sorta in Germania nel secondo decennio del XX sec. per opera di Max Wertheimer, Kurt Koffka e Wolfgang Köhler in opposizione alla psicologia associazionistica. Secondo la teoria, i fenomeni percettivi non possono essere spiegati sulla base di una giustapposizione o addizione di singole unità elementari (sensazioni), ma piuttosto globalmente nel loro organizzarsi in strutture (Gestalten) secondo leggi ben determinate. Gli psicologi gestaltisti sostengono che l’attività percettiva svolge non un semplice lavoro passivo di registrazione delle stimolazioni, ma un compito attivo di organizzazione e strutturazione dei dati registrati dagli organi di senso. Questo lavoro di organizzazione, che approda alla resa percettiva, avviene secondo criteri e modalità che sono stati definiti da Wertheimer leggi dell’organizzazione formale: (a) la legge della chiusura, la quale stabilisce che parti delimitate da un contorno chiuso, a parità di altre condizioni, si costituiscono come unità figurali; (b) la legge della continuità di direzione, per la quale una linea che presenti una traiettoria continua sarà vista procedere senza interrompersi nel punto in cui incontra o incrocia un’altra linea; (c) la legge della regolarità e della buona forma, in base alla quale si strutturano come unità autonome le componenti più regolari e meno complesse. Tuttavia, il passaggio organizzativo più importante di ogni atto percettivo è la segregazione tra la figura e lo sfondo, ovvero le operazioni cognitive con cui l’individuo separa dal campo percettivo complesso gli attributi dell’oggetto specifico a cui rivolgere attenzione, da tutto ciò che oggetto non è (ossia, lo sfondo). Una conseguenza importante del lavoro organizzativo che la percezione compie separando la figura dallo sfondo sta nel fatto che cambiano le qualità fenomeniche (cognitive, emotive e comportamentali) delle parti che vanno a costituire l’una oppure l’altro: la figura ha una maggiore evidenza di concretezza e, soprattutto, è dotata di forma, mentre lo sfondo appare più indefinito e inconsistente. (*)

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari