Gente che ci manca...





 Philippe Daverio era un critico d'arte di gran fascino, perché i suoi percorsi e itinerari culturali parevano delle Matrioske o dei caleidoscopî: era un vero piacere ascoltarlo, nonostante quella sua voce come una torbiera irlandese, qualche imprecisione e una certa tendenza alla dispersione (che era però, anche una qualità e un segno di vivacità e curiosità intellettuali).
«Passepartout», il suo programma più noto, andato in onda credo per una decina d'anni, molto amato dal pubblico e inspiegabilmente interrotto dalla RAI, è stato uno dei pochissimi veri programmi di cultura della TV, del XXI secolo ... almeno, così diceva Aldo Grasso.
Un programma di cultura non significa che – magari in un contenitore di varia umanità – chiami lo scrittore (più raramente, il poeta: quasi sempre il mio vecchio amico Davide Rondoni, mai visti Milo De Angelis o il compianto Mario Benedetti; qualche volta, ma in anni passati, Giuseppe Conte), il critico, il filosofo (quasi sempre Cacciari o Fusaro) ecc.
No! E neppure le robe che abbiamo fatto io od altri (ibridi, tra la televisione didattica di una volta e un certo estro cultural-fantastico).
Un programma di cultura è quello che faceva Daverio (e che pochi altri, avrebbero potuto o potrebbero proporre, senza annoiare).
Daverio non aveva una formazione accademica storico-artistica, in senso stretto; aveva studiato Economia e Commercio alla Bocconi ma senza arrivare alla laurea.
Era un erudito, estroso (anche nel look) ed eclettico, anche gallerista.
Personalmente, non avendo mai visto «in actu» (neppure in TV) né Roberto Longhi né Francesco Arcangeli (né, tantomeno, il venerando e leggendario «Bibi» Berenson), per le cose d'arte – oltre agli scritti – sono un fan di Federico Zeri e di Giovanni Testori (che conobbi anche di persona, quando avevo 17 anni).
Zeri, invece, lo conobbe mio padre e mi fece avere un suo libro autografato.
Una mia ex professoressa bolognese, nota storica dell'arte (poi presidente onorario della Fondazione Zeri, a Bologna), ci diceva che Zeri fosse tra i maggiori conoscitori (a livello mondiale) di certi settori della Storia dell'Arte; però, la stessa, non condivideva certe sue bizzarrie in TV, come quando si travestiva da neonato; invece, a me piaceva anche per quello, ritrovato anni dopo: era una forma di protesta contro la TV trash già in arrivo, e una recita ironica e anticonformista, contro gli accademici e intellettuali ingessati. Uno sberleffo che Zeri, di certo, poteva permettersi.  
Mi piaceva quella sua ombrosità misteriosa, l'accento romanesco quando diceva «secolo decimoquinto» ecc., l'imago da antico senatore romano, la chiarezza anglosassone della scrittura, lui che era stato il consulente di importanti musei americani e di collezionisti privati. L'uomo era dotato di una memoria prodigiosa e conosceva interi passi della Commedia dantesca, autori latini quasi sconosciuti ai più, fonti storiche ecc. (così come un mio professore del liceo o anche il finissimo Fernando Bandini che, di tanto in tanto, si lasciavano andare a citazioni di non brevissimi testi in latino); forse le vecchie generazioni avevano questa abitudine di mandare a memoria brani letterarî o del melodramma.
Mi colpiva di Zeri anche una solitudine totale e disperata, solitudine affettiva ed amorosa, che riusciva a riempire e a trasformare in un vitalismo conoscitivo.
Dicono che avesse un brutto carattere... Però uno che rispondeva sempre alle centinaia di lettere che, ogni giorno, si accumulavano sul suo tavolo, ai grandi o ai piccoli della terra, ha la mia ammirazione.
Quando ci fu il famoso scherzo delle false teste di Modigliani, Zeri non abboccò.   
Giovanni Testori, il «più instancabile sperimentatore della letteratura italiana», come scrisse Raboni, anche come critico d'arte lasciava la sua indimenticabile impronta (era anche pittore). Un po' come Roberto Longhi, maestro che gli voleva bene.
Mi ricordo che una volta ero con Davide Rondoni nella casa fiorentina di Piero Bigongiari, che pareva un distaccamento degli Uffizi, sezione: Barocco toscano. Guardando uno dei dipinti dello «zio» Piero (come lo chiamavamo, con simpatia), feci un'osservazione; al che, Bigongiari, che era poeta ma anche critico letterario e d'arte, mi chiese: «Sei uno studente del Dams?». Non ricordo la mia risposta... Sì, seguivo anche le lezioni di Storia dell'Arte Moderna, ma non ero iscritto al Dams.
Tuttavia, quella mia osservazione non era debitrice delle lezioni universitarie ma degli scritti di Longhi e Testori, letti per conto mio.
Gente che ci manca...       

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